Vota Michela Iannella nella nella finale di 8×8 (26 maggio 2020)

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Il racconto di Michela

Il trattamento

Vota per Michela Iannella
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Quando camminavamo insieme tra i filari del vigneto la mia te-
sta non aveva ancora superato in altezza i tralci. La mia spalla gli
arrivava quasi alle anche. Nonno avanzava sempre pianissimo,
lasciava orme perfette sul terreno secco e la sua camicia si inumi-
diva sulla schiena dopo appena qualche minuto.
In alta Irpinia l’estate segue regole diverse, fa caldo a metà.
Alla prepotenza del sole si alterna un vento tiepido, e quando
soffiava, nei pomeriggi di luglio, nonno si fermava, spostava la
faccia in direzione del fresco, chiudeva gli occhi e si asciugava
il sudore sulle palpebre. Si voltava, poi, per assicurarsi che non
fossi troppo stanca e che non stessi mangiando i chicchi d’uva di
nascosto. Mi aveva scoperto a farlo una volta e da allora non mi
faceva più entrare nel vigneto se non con lui.
Il trattamento, lo chiamava.
Consisteva nello spruzzare il fungicida sulle foglie. Lo faceva
lui, da solo, ogni anno, con la pompa irroratrice sulle spalle che da
bambina mi sembrava un qualche tipo di attrezzo per astronauti.
Era un procedimento lentissimo, sempre uguale, che eseguiva in
silenzio come un rituale imparato a memoria. Gli chiedevo per-
ché dovesse mettere qualcosa di velenoso sull’uva, in che modo
potesse far bene ai grappoli.
«A te fa male, a loro no» mi rispondeva tutte le volte.
Quando andavamo nei campi mi faceva cambiare le scarpe. Mi
faceva sedere sulla panchina in pietra all’ombra del gelso nero,
me le sfilava e mi diceva «queste non vanno bene per la campa-
gna». Allora mi metteva un suo paio rovinato, di almeno cinque
numeri più grandi del mio.
Una mattina, una domenica con il vento tiepido e la sua mano
sulla nuca, siamo andati così tra i filari. Io con le mie scarpe trop-
po grandi, lui con la sua camicia bagnata di sudore prima ancora
che arrivassimo. Aveva piegato un vecchio lenzuolo, ci aveva si-
stemato sopra due fazzoletti in stoffa, della stessa identica misu-
ra, e sopra ancora ci aveva appoggiato un coltello.
Era andato dritto verso l’albero di pero, che divide in due
metà perfette il vigneto, e che nonno aveva scelto anni prima
come punto di riferimento. Una specie di spartiacque, per deci-
dere dove iniziare a piantare l’uva bianca e smettere con quella
rossa.
Aveva staccato un po’ di frutti dai rami, steso il lenzuolo
all’ombra della chioma e si era seduto con la schiena contro il
tronco. Io accanto a lui.
La mia testa sapeva già come sistemarsi sulla sua spalla, co-
nosceva il suo posto. La pelle gli bruciava e profumava di foglie
e fango.
«Come si chiama quel paese?» gli avevo domandato indican-
do un mucchio di case lontane, che stanno su un pendio e sem-
bra sempre che stiano per scivolare giù. Lo aveva chiamato con
un nome in dialetto, uno di quei soprannomi nati per via di un
particolare o una caratteristica evidente.
«Ma il nome vero?» Aveva accennato una mossa con le spalle,
la mia testa si era alzata insieme a loro.
Teneva una pera in una mano, aveva appoggiato le altre a
terra, sul lenzuolo. Le vene dei polsi gli si erano ingrossate per
tutto quel caldo. Aveva una patina nera sui polpastrelli, riuscivo
a vederla mentre affondavano di poco sulla superfice della pera.
Nonno la tagliava senza mai staccare il coltello, e alla fine veniva
giù una specie di boccolo di buccia verdognola. Le gocce gli sci-
volavano fino al gomito e gli finivano poi sui pantaloni, ogni tan-
to abbassava lo sguardo come per analizzarle, ma non spostava
la pera, continuava a farla gocciolare sui vestiti. L’avvolgeva con
il fazzoletto solo quando arrivava il momento di passarla a me.
Faceva tutto con estrema lentezza. Il modo in cui aveva disteso il
fazzoletto, usando le punte di pollice e medio per afferrare i
bordi, la delicatezza nel posarlo sulle ginocchia, lasciar cadere il
pezzo di pera esattamente nel mezzo.
«Fai piano» mi aveva detto passandomi lo spicchio con le
mani a coppa. Un solo morso, la polpa era marrone e calda e non
c’era neanche bisogno di masticarla per mandarla giù.
Avevo annuito e lui mi aveva spostato le mani in modo che le
gocce della pera finissero sull’erba.
«Buona?»
Aveva poi guardato con la coda dell’occhio il pendio, come a
cercare da qualche parte una risposta che non sapeva darmi.
Dev’essere stato lì, in quel vigneto, con le mie mani aperte che
aspettavano un pezzo di pera, che ho iniziato a capire mio non-
no, con quell’espressione di delusione quando si era reso conto
di non aver saputo rispondere alla mia domanda sul paese.
Avrei voluto cancellarlo, quel paese, se solo fosse servito a
svuotarlo da quel senso di imbarazzo.
Lo stesso che aveva quando non sapeva contare il resto dei
soldi del titolare del bar in piazza, o quando sentiva arrivare il
postino, che riconosceva dal modo di bussare alla porta, per poi
presentarsi alla soglia con già una tazzina di caffè da offrire e
un’espressione che da sola significava entra a riposare. E si in-
cupiva sempre, poi, a tazzina vuota mentre il postino andava
via, osservando quelle buste tra le mani, pensando che avrebbe
dovuto chiedere a qualcun altro di leggere le parole contenute
all’interno.
Era sempre stato un uomo di campagna, ne conosceva i ritmi e i
cambiamenti, non ha mai saputo altro se non come camminare
in un vigneto, capire un albero, realizzare quando un animale
stava per ammalarsi e morire. E se io vedevo in lui tutte le cose
che aveva imparato per una vita intera, lui solo quelle che non
aveva mai saputo.
Nonno non ha riconosciuto il momento in cui ha iniziato ad am-
malarsi e morire, non era bravo a intuire queste cose sulle per-
sone. E adesso che la mia testa supera di gran lunga i filari, vado
ancora lì dove il pero li divide a metà, da dove si vede in lonta-
nanza un paese che con il tempo ho imparato a chiamare per
nome. Avrei voluto dirgli che le risposte che inseguiva non erano
da cercare in quel paese, né in tutte le x tracciate al posto di una
firma o nello sguardo puntato a terra quando qualcuno leggeva
per lui. Invece, avrebbe dovuto notare il modo in cui imparavo
il rispetto quando medicava la zampa di un cane o osservare la
mia meraviglia quando sapeva prevedere la malattia di un tron-
co. Avrebbe dovuto capire che mi stava insegnando la pazienza
mentre valutava se il grano fosse da tagliare o meno, il valore del-
la fatica quando si ostinava a lavorare anche se le gambe avevano
iniziato a tremargli. Non avrei saputo come spiegarglielo, tutto
questo. Non avrei saputo da dove iniziare.
Oggi c’è lo stesso vento all’ombra di quell’albero. Ci sono io,
schiena contro il tronco, a tagliare le pere senza mai allontanare
il coltello, con questa guancia che ancora non si è abituata al fat-
to che non ci sia più una spalla su cui appoggiarsi. E con questo
vigneto vecchio e immobile, che non ha mai cambiato aspetto,
con i frutti che hanno lo stesso sapore e con le stesse orme per-
fette sul terreno secco, che adesso lascio io, con delle scarpe che
tengo da parte, sotto la panchina in pietra, e che uso solamente
per camminare in campagna.


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